Il governo sdogana le stablecoin. Con un articolo scritto per Il Sole 24 Ore, Federico Freni, sottosegretario al Mef, ha plaudito all’iniziativa presa nei giorni scorsi da nove istituti di credito europei che hanno costituito una società (in Olanda, tanto per cambiare) al fine di emettere stablecoin con sottostante in euro.
Lo stablecoin all’europea, che nasce entro i paletti regolamentari del regolamento europeo Mica, «si pone l’obiettivo – ha spiegato il sottosegretario – di diventare uno standard di pagamento europeo affidabile all’interno dell’ecosistema digitale. È un’ambizione sana e necessaria perché intercetta lo sviluppo degli strumenti digitali utilizzati dai consumatori, a sua volta cartina di tornasole di quel salto culturale che sta caratterizzando comportamenti e azioni sempre più concentrati su strumenti innovativi».
Un endorsement in piena regola, come si vede. Al quale Freni ha aggiunto quella che lui stesso ha definito una suggestione: «E se la chiave di volta fosse una stablecoin di sistema, che metta insieme operatori nazionali e che attraverso un circuito di sistema possa anche essere scambiata in maniera istantanea, economica ed efficiente? E che magari possa ambire in prospettiva a farsi interprete di una progressiva tokenizzazione del debito. Si tratterebbe di opportunità da cogliere senza indugio».
Ora, lo stablecoin è una valuta digitale emessa da un privato ed il cui valore riposa (almeno dovrebbe) su una moneta ufficiale che svolge la funzione di collateral (garanzia). Che c’entra il debito pubblico italiano a cui il sottosegretario fa cenno? C’entra perché fino al 35% delle riserve che servono a rendere “stable” il valore del coin può essere rappresentato da titoli di Stato (secondo i technical standard indicati dall’Eba nel 2024).
Quindi, seguendo il filo di quel ragionamento, se UniCredit emettesse €1 miliardo di stablecoin, la riserva potrebbe essere costituita da Bot (presumibilmente, trattandosi di asset richiamabili sostanzialmente a vista) fino a €350 milioni. Se il sistema si afferma sarebbe un bel colpo per i gestori del debito pubblico italiano.
Ma torniamo al progetto delle nove banche europee (ING, Banca Sella, KBC, Danske Bank, DekaBank, UniCredit, SEB, CaixaBank e Raiffeisen Bank International). L’iniziativa si propone di contrastare l’assoluto predominio del dollaro nelle nuove valute digitali. Attualmente, secondo i dati di CoinMarketCap, il mercato delle stablecoin capitalizza €260 miliardi e per il 99% ha come sottostante il dollaro. Quelle con sottostante in euro valgono solo 400 milioni.
Il recente Genius Act, approvato dall’amministrazione Trump, ha regolamentato gli stablecoin con il proposito di perpetuare la presa del dollaro nel sistema dei pagamenti internazionali. Ma chi utilizza gli stablecoin? Questi vengono considerati una «terra di mezzo» tra le monete tradizionali e i bitcoin, finora utilizzati da chi vuole conservare l’anonimato – le transazioni sono crittografate e protette all’interno di una blockchain – quindi per pagamenti «in nero», e risparmiare rispetto ai costi addebitati sulle transazioni dal circuito tradizionale.
Nel caso di stablecoin emessi da banche, soprattutto in Europa, i vantaggi dell’anonimato vengono a cadere. Il regolamento Mica assoggetta infatti quelle transazioni alla normativa antiriciclaggio. Rimangono i vantaggi di minori costi di transazione e infatti c’è chi negli Usa – lo ha fatto il Treasury Borrowing Advisory Committee – ha stimato che i nuovi strumenti digitali potrebbero innescare un deflusso di ben $6 mila miliardi entro il 2028 dai depositi bancari.
Resta però il fatto che se fossero le stesse banche ad emettere stablecoin, la disintermediazione sarebbe relativa. Diverso sarebbe il discorso per l’euro digitale, la moneta elettronica dell’eurozona, alla quale sta lavorando da tempo la Bce. In quel caso i correntisti bancari sarebbero autorizzati a prelevare una quota dei loro depositi (si parla di una quota intorno ai €3.000) da mettere nei loro wallet (portafogli digitali) per spenderla a proprio piacimento. Un po’ come avviene con Satispay.
Un simile sistema disintermedia in parte le banche ma soprattutto le carte di credito, un business a prevalenza Usa. Ciò che spiega l’ostilità dell’amministrazione Trump nei confronti delle monete digitali.
Ma anche la lobby bancaria europea solleva obiezioni: «È vero – ha detto nei giorni scorsi il presidente dell’Abi Antonio Patuelli – che la Bce si appoggerà alle banche, e per questo esprimo apprezzamento, e alle Poste: ma gli investimenti tecnologici li devono fare le banche. Ci sono valutazioni sull’argomento: e quando ci sono valutazioni io temo sempre che siano ottimistiche. La nascita di nuovi circuiti europei, da un lato, e l’euro digitale dall’altro, produrranno costi in termini di investimenti tecnologici. E saranno le banche a pagare».
L’ecumenico Freni non vede il problema: «La stagione della contrapposizione – ha scritto sul Sole 24 Ore – genera solo frutti acerbi». C’è però un problema di tempi da considerare. L’euro digitale dovrà essere autorizzato da una direttiva comunitaria – ciò che è bizzarro perché non tutte le nazioni rappresentate nel Parlamento europeo fanno parte dell’eurozona – poi dovranno essere emanate le normative secondarie.
Sicché, secondo il membro del Comitato Esecutivo della Bce, Piero Cipollone, l’euro digitale potrebbe essere lanciato a metà 2029. Lo stablecoin delle nove banche europee, autorità permettendo, vedrà la luce tre anni prima, nel 2026.
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