Quand’è che l’insolvenza di un’azienda diviene irreversibile ed occorre, per così dire, staccare la spina? La questione continua a far discutere – spiega un articolo de Il Sole 24 Ore – perché, se la definizione di insolvenza offerta dall’articolo 2 del Codice della crisi è in continuità con la disciplina abrogata, dall’altro la procedura liquidatoria è circondata da strumenti di risanamento che puntano sulla reversibilità della crisi.
Recentemente il Tribunale di Ravenna (decreto 7 luglio 2025), pur rilevando la presenza di un evidente squilibrio finanziario e l’esistenza di debiti scaduti, ha ritenuto insussistente, nel caso di specie, il presupposto dell’insolvenza irreversibile, rigettando la domanda di apertura della liquidazione giudiziale presentata dalla ricorrente. In dettaglio, il caso ha coinvolto una società operante nel settore edilizio – contro cui erano stati emessi più decreti ingiuntivi – rispetto alla quale il tribunale ravennate non ha ritenuto riscontrabile quello stato di insolvenza irreversibile che costituisce requisito per l’apertura della procedura liquidatoria concorsuale.
In questa occasione, i giudici romagnoli hanno fatto propria un’interpretazione «dinamica» della nozione di insolvenza, capace di spingersi oltre la tradizionale fotografia statica del rapporto tra attivo e passivo e in virtù della quale – ha sottolineato il giornale – «la sussistenza del presupposto oggettivo non può desumersi dalla mera presenza di un inadempimento o di un deficit finanziario, ma richiede, al contrario, un giudizio prognostico sulla capacità dell’impresa di continuare ad operare sul mercato in modo proficuo».
In quella direzione vanno anche alcune pronunce della Cassazione (n. 30284/2022 e n. 26510/2025), richiamate dai giudici ravennati, il cui orientamento ha conseguenze anche nella valutazione dei cespiti aziendali. In questa prospettiva, infatti, fabbricati, macchinari e crediti – a prescindere dal loro valore contabile – devono essere considerati essenzialmente per la loro attitudine a generare cassa e a sostenere il ciclo economico futuro.
La materia, comunque, resta scivolosa. I giudici romagnoli non hanno contestato la carenza di liquidità dell’impresa né gli inadempimenti che ne sono conseguiti, che possono ritenersi indicativi di una situazione di significativo squilibrio temporaneo. Ma la stessa – hanno spiegato – «appare potenzialmente superabile a seguito dell’atteso esito favorevole anche solo di una parte dei rilevanti contenziosi attivi pendenti».
Questa visione, peraltro, impatta in modo significativo anche sulla posizione dei creditori rispetto alla procedura, giacché la presenza di decreti ingiuntivi o di un attuale stato di illiquidità non sembra essere più sufficiente, da sola, a giustificare l’apertura della liquidazione giudiziale. A tal fine, pertanto, i giudici devono valorizzare, nel loro giudizio complessivo, anche la presenza di attivi non prontamente liquidi – come i crediti litigiosi, di per sé di difficile realizzo – se il loro potenziale realizzo, anche parziale, appare idoneo quantomeno a coprire le passività e, così, a consentire la ripresa delle attività produttive.
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