Gli operatori che per anni hanno gestito portafogli, incassi e asset per conto terzi ora guardano più in alto: vogliono investire, costruire fondi, diventare protagonisti del mercato. È la trasformazione dal servicing all’asset management, un’evoluzione che promette efficienza, integrazione e nuove opportunità ma che, come è emerso durante la tavola rotonda «Viaggio verso l’Asset Management: Possono i major player della nostra industry evolvere verso modelli tipici del private capital?», porta con sé anche rischi, complessità e la necessità di ridefinire ruoli e competenze.
Moderata da Luca Cosentino, partner del team Financial Services di EY-Parthenon, la discussione ha riunito alcuni tra i protagonisti più esperti del settore. «Il nostro obiettivo oggi – ha aperto Cosentino – è capire come e quando il confine tra servicer e asset manager stia diventando sempre più sottile. Non parliamo solo di evoluzione tecnica, ma di un cambio di DNA industriale e culturale».
A introdurre la prospettiva più scettica è stato Gaudenzio Bonaldi Gregori, CEO di Pillarstone, che ha invitato a non confondere le due anime del business: «Gestire e investire sono due mestieri diversi. Il servicer misura la performance in termini di efficienza operativa, l’investitore in termini di rendimento sul capitale. Il primo è un mestiere “a canone”, il secondo è un mestiere “a rischio”. Non basta spostare qualche leva o cambiare etichetta per diventare asset manager».
Bonaldi ha ricordato come, nel suo gruppo, l’integrazione tra gestione e investimento sia avvenuta solo dopo anni di sperimentazione: «Abbiamo dovuto imparare a ragionare come investitori: non più sull’arco dei sei mesi, ma su orizzonti di tre, cinque, dieci anni. Questo cambia tutto: i processi, le persone, persino il linguaggio».
Un approccio più pragmatico quello di Biagio Giacalone, CEO di CRC Analytics, che ha sottolineato l’urgenza del cambiamento: «Oggi la domanda vera è: un servicer può permettersi di non evolvere? La risposta è no. Il mercato chiede sempre più spesso che il gestore metta qualcosa di suo, che si esponga. Non basta eseguire un mandato, bisogna condividere il rischio». Giacalone ha poi aggiunto: «Quando il cliente sa che anche tu hai capitale investito, cambia il rapporto: diventa una partnership. Anche solo un 5 o 10% di co-investimento può fare la differenza. Significa che credi in quello che gestisci».
Venendo al versante legale, Gianrico Giannesi, partner di Chiomenti, ha portato una prospettiva lucida e rassicurante: «Non esistono veri ostacoli normativi a questo tipo di evoluzione. L’Italia, anzi, è uno dei Paesi che offre più strumenti giuridici flessibili: fondi di investimento, veicoli di cartolarizzazione, strutture di sub-partecipazione. Il limite non è nella legge, ma nella capacità industriale di gestire questa complessità. Serve chiarezza nei ruoli, trasparenza nei flussi e governance condivisa».
Un esempio concreto di integrazione arriva da Roberto Maffioletti, Chief Investment Officer di Guber Banca, che ha spiegato: «Noi abbiamo scelto un approccio ibrido: ci piace scriverci il menù, fare la spesa e mangiarci la cena. Gestiamo e investiamo insieme, ma senza confondere i ruoli. Ogni passo richiede disciplina e trasparenza, perché i conflitti d’interesse sono dietro l’angolo». Maffioletti ha insistito sul tema della fiducia: «Il successo nasce da relazioni di lungo periodo. Non serve rincorrere il deal del momento, serve costruire un ecosistema di partner con obiettivi comuni e la stessa visione industriale».
Il tema della partnership è stato ripreso da Christian Busca, partner di EY SLT, che ha portato un punto di vista da investitore istituzionale: «Negli ultimi quattro anni abbiamo visto esplodere il fenomeno dei fondi ad apporto: dal 2020 i conferimenti sono passati da un miliardo a un miliardo e seicento milioni. Sono strumenti che consentono di aggregare asset, ottimizzare il capitale e creare piattaforme di investimento scalabili».
Busca ha poi spiegato le due direttrici che guideranno il futuro: «Da un lato la specializzazione tematica, con veicoli dedicati a NPL, UTP, real estate o credito alle PMI. Dall’altro l’internazionalizzazione: le piattaforme italiane stanno diventando attrattive anche per capitali esteri. È un momento in cui possiamo giocare un ruolo europeo, se investiamo su governance e professionalità».
Anche Federico Silva, Head of Origination & Business Development – Europa Investimenti (Arrow Global Group), ha raccontato come il suo gruppo abbia attraversato questa trasformazione: «Arrow è nata come servicer puro, ma abbiamo capito che per crescere dovevamo anche investire. Quando sei solo un gestore, il tuo destino è nelle mani degli altri. Quando diventi investitore, guadagni libertà strategica. Però – ha avvertito – questo comporta responsabilità enormi: serve raccolta, trasparenza e la capacità di generare rendimenti stabili». Silva ha aggiunto che la chiave è «la fiducia degli investitori. Puoi avere la migliore tecnologia, i dati più raffinati, ma se non hai track record e credibilità, non raccogli capitale. E senza capitale non fai asset management».
A chiudere il cerchio è stato Davide Ferrari, CEO di OneOSix, che ha portato la prospettiva dell’alternative lending: «Siamo nati per dare ossigeno a imprese e crediti che le banche non riuscivano più a gestire. Oggi il confine tra servicer e investitore è sfumato: quello che conta è la capacità di creare valore. Per noi il co-investimento è il modo più efficace per allineare interessi e generare fiducia. Fino a qualche anno fa – ha continuato Ferrari – il distressed era considerato una nicchia, quasi un ripiego. Oggi è una vera e propria asset class, con investitori sofisticati, family office e fondi internazionali pronti a entrarci. Ma per attrarli serve professionalità, dati solidi e una governance impeccabile».
Il confronto si è chiuso con una consapevolezza chiara: quella verso l’asset management non è una tendenza, ma una traiettoria ormai tracciata. «Non è un salto nel vuoto, ma un viaggio da affrontare con metodo e ambizione», ha osservato Cosentino, ricordando che il vero discrimine sarà tra chi saprà intrecciare competenza industriale e intuito finanziario. Un percorso che richiederà capitale, coraggio e la pazienza di chi investe guardando lontano.
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