AI nel settore dei crediti: tra entusiasmo tecnologico e necessità di misurazione

L'intelligenza artificiale promette una rivoluzione nel recupero crediti e nell'underwriting, ma serve un approccio metodico e basato sui dati

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TAVOLA ROTONDA 3 - AI-LEAPS

L’intelligenza artificiale nel settore dei crediti deteriorati e del risk management non è più un miraggio futuribile, ma una realtà operativa che sta già trasformando processi e risultati. Durante la tavola rotonda «Leaps Tecnologici: ancora solo esperimenti o si comincia a incidere seriamente sul business?», moderata da Marco Cozzi, country manager Italia di Qualco, è emerso un quadro chiaro: la tecnologia c’è, funziona e produce risultati misurabili, ma richiede preparazione, competenze e un approccio scientifico per evitare investimenti improduttivi.

A rompere il ghiaccio è stato Enrico Risso, amministratore delegato di Intrum Italia, che ha inquadrato l’AI come «la quarta rivoluzione industriale», paragonandola per impatto alla meccanizzazione, all’elettricità e all’avvento dei computer. «Se andiamo a vedere l’AI, indubbiamente queste tre caratteristiche non possiamo non trovarle», ha spiegato, riferendosi a scalabilità, accessibilità e applicabilità, i tre requisiti che storicamente hanno definito le grandi rivoluzioni tecnologiche.

L’esempio concreto arriva da Ophelos, piattaforma di digital collection acquisita da Intrum nel 2023 e basata sull’AI generativa. «Abbiamo visto un impatto diretto sull’efficienza e sulla customer experience: i tassi di recupero sono saliti del 20% e i costi si sono ridotti del 22%», ha spiegato Risso, che poi ha messo in guardia contro facili entusiasmi, ricordando il caso Kodak, che nel 1975 inventò la prima macchina fotografica digitale, salvo poi decidere di non investirci per non cannibalizzare il business delle pellicole e rischiare il fallimento nel 2012, a causa della rapida ascesa della fotografia digitale.

Frank Innos, managing director di Varadero Capital, con un dottorato in algoritmi di intelligenza artificiale, ha portato il necessario contrappeso critico. «Non dobbiamo concedere che una innovazione non sia misurabile solamente perché è nuova», ha sottolineato, citando Galileo. Il suo richiamo è a un approccio scientifico, fatto di KPI e verifiche costanti, per evitare che l’AI diventi una moda più che un metodo. L’entusiasmo, dunque, va bilanciato con la misurabilità dei risultati.

Dal mondo legale è arrivata una prospettiva diversa, quella di Stefania Radoccia, managing partner di BIP Law & Tax, che ha raccontato come la tecnologia stia trasformando anche un settore tradizionalmente refrattario all’innovazione. Secondo una survey condotta su cento grandi aziende italiane, oltre la metà delle imprese non è ancora pronta per l’AI perché manca un prerequisito fondamentale: l’automazione dei processi base. Quindi, «prima di considerare l’Artificial Intelligence dobbiamo parlare di automazione e razionalizzazione dei dati».

Radoccia ha poi aggiunto che «molta parte del lavoro di avvocati e fiscalisti è delivery, routinaria e compliance», prima di spiegare come BIP stia sviluppando una piattaforma che analizza i crediti in maniera predittiva, si collega ai sistemi del cliente e arriva persino a generare gli atti. In questo modo, il processo civile telematico diventa un abilitatore tecnologico che permette salti in avanti impensabili fino a pochi anni fa.

Sul fronte bancario, la voce di Andrea Mariani, policy underwriting e collection strategy manager di ING Italia, ha aggiunto una prospettiva prudente ma realista. La banca – storicamente pioniera della digitalizzazione in Italia con prodotti come Conto Arancio – utilizza motori decisionali basati su statistiche che valutano automaticamente il merito creditizio, ma non ha ancora introdotto l’intelligenza artificiale in senso stretto, in attesa di linee guida dal gruppo di Amsterdam.

«L’NPL è più un effetto, la causa va guardata a monte in fase di underwriting», ha spiegato Mariani, sottolineando come strumenti accurati di valutazione creditizia prevengano i problemi successivi. Il concetto di human in the loop rimane centrale: la macchina lavora, ma l’essere umano supervisiona, monitora e regola per evitare effetti indesiderati o risultati poco trasparenti.

A chiudere gli interventi è stato Rodolfo Diotallevi, group chief business development and innovation officer di doValue, che ha parlato dell’importanza di essere first mover in questo viaggio tecnologico. «Un use case è relativamente facile da fare, il problema è tutto quello che va dietro», ha spiegato, riferendosi alla governance dei dati, all’integrazione con i gestionali, alle competenze necessarie e al cambiamento del modello operativo.

Si tratta di aspetti che richiedono dai dodici ai diciotto mesi o più, e solo quando si riesce a industrializzare l’AI si vedono i veri benefici. In Grecia, doValue ha lanciato una piattaforma digitale con voicebot e textbot che ha già digitalizzato il 25% dei flussi lavorativi, con un incremento di produttività del 15%, mentre il nuovo partner Coeo, specializzato in crediti di piccolo importo, recupera oltre il 65% tramite canali digitali.

In conclusione, Cozzi ha tracciato una roadmap del dibattito: la tecnologia non è un salto nel vuoto, ma un percorso che richiede preparazione, dati, competenze e capacità di misurare ogni passo. Solo così l’intelligenza artificiale potrà essere davvero un salto evolutivo e non un’illusione.

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