Finanziamenti con garanzia pubblica: un vademecum dai giudici per una buona istruttoria

Cosa dovrebbero fare le banche e quali rischi corrono se non lo fanno

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Il rapporto tra banche, imprese e garanzie pubbliche è al centro di un acceso dibattito giurisprudenziale, che rischia di ridefinire sia il modo in cui dovrebbero essere condotte le istruttorie sul merito creditizio, sia i confini della responsabilità degli istituti di credito. Tre provvedimenti del Tribunale di Napoli hanno tracciato un vero e proprio vademecum per le banche, inasprendo notevolmente i criteri della diligenza del buon banchiere quando sono coinvolte garanzie Sace o del Fondo di Garanzia per le piccole e medie imprese (gestito da MCC).

Garanzie pubbliche e aumento della diligenza bancaria

Il messaggio del tribunale partenopeo è chiaro: la presenza di garanzie pubbliche non riduce, ma intensifica gli obblighi di valutazione del merito creditizio da parte delle banche. Questa è una posizione che ribalta la logica spesso seguita da alcuni istituti di credito, che tendevano a considerare la garanzia statale come una sorta di paracadute, che giustificava controlli meno rigorosi.
La circostanza che il finanziamento sia garantito dallo Stato non esonera la banca dal rispetto del principio di sana e prudente gestione (art. 5 Tub), sottolinea il tribunale, evidenziando come l’utilizzo di risorse pubbliche dovrebbe, semmai, imporre un aumento della diligenza nella verifica del merito creditizio del finanziato.
Il ragionamento dei giudici segue una logica ferrea: se la banca può contare su una copertura pubblica fino all’80% del finanziamento, ottiene i vantaggi della remunerazione in caso di adempimento e trasferisce sostanzialmente il rischio allo Stato in caso d’inadempimento; questo squilibrio, secondo il tribunale, giustifica la pretesa di standard istruttori più rigorosi.

Il vademecum del giudice

Secondo il tribunale, non basta che la banca analizzi il Durc (che serve solo a verificare il pagamento dei contributi e, di solito, le imprese cercano di pagare i dipendenti perché essenziali per la prosecuzione dell’attività), i bilanci (documenti unilaterali del finanziato, non sempre affidabili), il flusso di ritorno della Centrale dei Rischi (che dice molto, ma non tutto) e una visura di protesti e pregiudizievoli, ma occorre che l’istituto finanziatore abbia una visione più ampia.
Tra le indicazioni più specifiche del «vademecum giudiziale» emerge la necessità per le banche di richiedere il certificato unico dei debiti tributari (cd. certificato dei carichi pendenti tributari) all’impresa richiedente. Un documento che, pur non essendo direttamente accessibile agli istituti di credito, può essere facilmente ottenuto richiedendolo all’impresa stessa.
Il tribunale ha respinto le obiezioni delle banche, che consideravano eccessivamente onerosa questa richiesta, sottolineando come si tratti di un «attività non eccessivamente onerosa e defatigante», che consentirebbe di verificare l’attendibilità dei bilanci depositati e l’esistenza di esposizioni erariali significative.
La logica è quella di contrastare una prassi diffusa tra le imprese in difficoltà: l’autofinanziamento attraverso il mancato pagamento dei debiti fiscali, considerato dal tribunale una «massima di comune esperienza» nel settore della crisi d’impresa.

Verso controlli più stringenti?

La direzione indicata dai giudici potrebbe spingere le banche verso strumenti di analisi più sofisticati. Se già il certificato dei debiti tributari rappresenta un passo avanti, non sarebbe forse utile estendere la richiesta anche a una copia della Centrale Rischi dell’impresa richiedente?
Attualmente le banche hanno accesso solo al cd. flusso di ritorno della Centrale Rischi, che fornisce informazioni limitate rispetto al quadro completo disponibile al soggetto interessato. Una documentazione più ampia, magari rielaborata attraverso software specializzati come quelli offerti da piattaforme dedicate all’analisi della Centrale Rischi, potrebbe offrire una visione più accurata della situazione finanziaria dell’impresa. E perché no, addirittura, chiedere all’impresa di consegnare l’esito del nuovo test circa la risanabilità della stessa (art. 5-bis, comma 2, Ccii)?
Questa evoluzione degli strumenti istruttori rappresenterebbe un naturale completamento del percorso tracciato dal tribunale napoletano, fornendo alle banche elementi ancora più solidi per valutare ex ante la sostenibilità del finanziamento e andare esenti da sanzioni.
Ma è proprio sul tema delle sanzioni che la giurisprudenza va in ordine sparso in caso di concessione abusiva di credito.

La tesi della nullità

Secondo quest’orientamento, la violazione degli obblighi di valutazione comporterebbe la nullità del contratto di finanziamento per illiceità della causa e contrarietà all’ordine pubblico economico. È la linea seguita dalle sentenze napoletane, che considerano il contratto nullo ab origine per violazione di norme imperative.

La responsabilità risarcitoria

Un secondo filone giurisprudenziale privilegia il rimedio del risarcimento del danno, configurando la concessione abusiva come un illecito, che causa un aggravamento del dissesto dell’impresa finanziata, senza però inficiare la validità del contratto.

La violazione dell’ordine pubblico

Una terza tesi, più radicale, considera i finanziamenti concessi a imprese in stato di decozione come contrari al buon costume, con la conseguenza che la banca non potrebbe richiedere nemmeno la restituzione del capitale, ai sensi dell’art. 2035 del Codice civile.

Le implicazioni pratiche

Quest’incertezza giurisprudenziale ha ripercussioni concrete significative. Nel caso della nullità, la banca perde il diritto di credito, ma potrebbe teoricamente richiedere la ripetizione dell’indebito. Con la responsabilità risarcitoria, il credito resta valido, ma può essere compensato con il danno causato all’impresa (la cui prova è a carico di quest’ultima).
Nell’ipotesi più severa, la banca perde sia il credito, sia la possibilità di recuperare il capitale erogato.
Questa molteplicità di orientamenti crea un quadro d’incertezza, che complica la pianificazione delle strategie bancarie e la gestione dei contenziosi. Le banche si trovano così a dover operare in un contesto normativo in evoluzione, dove le conseguenze di una valutazione inadeguata del merito creditizio possono variare drasticamente a seconda dell’interpretazione giudiziale prevalente.

Il ripensamento dell’istruttoria bancaria

I recenti orientamenti giurisprudenziali rappresentano un’occasione preziosa per un ripensamento complessivo dell’istruttoria bancaria. Come sostenevano i giusrealisti americani, a partire da Oliver Wendell Holmes Jr., il diritto non è altro che la capacità di predire cosa diranno i tribunali e i nostri tribunali stanno inviando un messaggio inequivocabile: l’era dei controlli superficiali sui finanziamenti garantiti è definitivamente tramontata.
Le banche che sapranno adeguarsi rapidamente a questi nuovi standard, implementando procedure istruttorie più rigorose e complete, saranno quelle meglio posizionate per navigare in questo nuovo scenario normativo. Al contrario, chi continuerà ad affidarsi alla garanzia pubblica come unico presidio rischia di trovarsi esposto a conseguenze sempre più severe.
La lezione è chiara: in un sistema che utilizza risorse pubbliche per sostenere l’economia, la responsabilità degli intermediari finanziari non può che essere proporzionalmente maggiore. I giudici lo hanno già detto e pare che, questa volta, la politica stia ascoltando.
Mentre sto scrivendo, www.bebankers.it ha dato la notizia che il Governo sta lavorando per imporre controlli più rigidi per i finanziamenti garantiti. In questo caso, pare che non saranno i giudici a fare il diritto, ma ci penserà direttamente la politica. Non ci resta che stare a guardare, mentre le banche dovranno capire cosa fare nel frattempo.

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