Dal primo crac medievale nasce la prima holding

I banchieri convivono con gli NPL da secoli. Nel '300 la Guerra dei Cent'Anni fu fatale ai grandi banchi fiorentini innescando fallimenti a catena. Ma pochi anni dopo con l'economia in ripresa Firenze rinasce

0
119

Il medioevo inventa le banche e con esse anche il primo crac finanziario della storia. I protagonisti furono le grandi supercompanies del tempo: i banchi fiorentini Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli. Il declino fu rapidissimo. Prendiamo il caso dei Bardi: fino al 1320 la compagnia aveva avuto performance favolose. Spartiva il trenta per cento di utili e un dividendo che andava dal dieci al tredici per cento. Nel 1331, questi risultati erano un miraggio. Nel 1332 guadagnava ancora qualcosa. Nei due anni successivi, il premio per il capitale investito nelle azioni crollò ad appena l’1-1,5 per cento. La situazione si appesantì con problemi politici interni. Le spese di accumulavano e i debiti anche. I commerci s’infiacchirono, i prezzi altalenanti, ma virarono di brutto verso il basso. Le banche fiorentine erano in affanno, indebolite ulteriormente dai prestiti al re di Napoli e per finanziare il re d’Inghilterra, con continui e salati esborsi. Tanto da diventare gli sponsor della grande impresa: la conquista della Francia da parte della monarchia inglese, gli esordi di quella che conosciamo come Guerra dei Cent’Anni. Re Edoardo III ha bisogno di soldi per mettere su un’armata d’invasione.

Impaziente per l’assenza di danaro cash, nell’attesa spasmodica che le entrate fiscali giungessero in tempo, si affida al credito dei banchi fiorentini, in cambio della promessa di sostanziosi interessi. È il grande sogno per tutti: per gli inglesi, impossessarsi di un regno; per i fiorentini, di mettere le mani sul mercato francese, di proporzioni gigantesche. È il 1338. Con Napoli le condizioni si aggravano, a causa delle improvvide alleanze tentate da Firenze con i nemici degli Angiò. Idea che scatena le ire del vecchio re Roberto e scatena un rush, col quale gli sportelli dei banchi fiorentini a Napoli vengono presi d’assalto. Né va meglio in Inghilterra. La guerra si arresta. Il re inglese trova un accordo politico ma non è ciò che i fiorentini si aspettavano, ossia un fortunato blitzkrieg.

A fare i conti, poi, capiscono che la guerra è stata un pessimo affare. I passivi accumulati enormi e soldi da riavere indietro neanche l’ombra. Così, Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli si trovano con le casse vuote, esposti con i propri correntisti per cifre esorbitanti, mentre i crediti che devono esigere dai sovrani dei due regni ammontano a complessivi 700 mila fiorini, una montagna di soldi con cui si potevano sfamare per due anni gli abitanti di Milano e Venezia. Capitale cui non si poteva accedere perché il re d’Inghilterra chiarisce che lui 600 mila fiorini da ridare ai fiorentini non li ha. Il buco finanziario è infinito. I correntisti corrono agli sportelli che, in tutta Europa, chiudono repentinamente, l’uno dopo l’altro. È il crac. Prima cadono gli Acciaiuoli, nel 1341, con un effetto domino che travolge i Buonaccorsi, gli Antellesi, gli Adimari, i Donati, i Gianfigliazzi, i Tornaquinci, gli Uzzano. Poi tocca ai Peruzzi. Infine al banco Bardi, il cui fallimento viene decretato nei primi mesi del 1346.

Nel crac bancario viene coinvolto tutto il continente europeo. A cominciare, naturalmente, dai fiorentini. Gente di città o del contado, grossi proprietari di laboratori artigianali e proprietari fondiari, semplici lanaiuoli, borghesi, salariati, tutti quelli che aveva depositato soldi nei banchi vedono sbriciolarsi i loro risparmi. Le case in città perdono valore. I possedimenti nel contado sono stimati un terzo in meno. A macchia d’olio, il contagio finanziario si propaga dappertutto. Coinvolge nel vortice mercanti di Parigi, di Londra, delle Fiandre, di Avignone, di Nîmes, di Montpellier, di Palermo, di Napoli, della Sardegna, della Corsica, di Roma. Non fu solo il danaro a volare via. Venne meno la fiducia nei mercanti e nei banchieri, che fossero o non fossero direttamente implicati nel crac. Avvenne ciò che avviene sempre in un mercato come quello del credito e della finanza particolarmente suscettibile alle variazioni, cioè si scatenò una crisi di affidabilità, condensata dalle parole di Villani che mancò la credenza. Sembrò la fine di tutto, dell’enorme castello di carte costruito in maniera arrembante per circa un secolo, il tempo eroico della nascita della banca, che ora crollava ingloriosamente come un castello di carte. Bisognava fare qualcosa. Innanzitutto, ripristinare la fiducia, sgangherata in mille pezzi. Senza di lei, non c’è speranza.

“Lo diceva bene uno che di banca se ne intendeva, Cosimo dei Medici: «il tesoro de’ mercatanti è la fede, e quanto più fede ha il mercatante, tanto più è ricco». Dove chiaramente la fede è la fiducia”

Ce ne volle a Firenze per riprendersi. E le procedure non furono sempre efficaci. L’azione di governo spesso non proprio limpida, spesso a garanzia dei più ricchi a detrimento della massa che fece molta fatica per essere risarcita. Villani stesso s’inalbera contro l’iniquità delle scelte, la corruzione, la commistione tra magnati e amministratori. D’altronde, il Comune era parte del problema, protagonista in precedenza di una dissennata politica economica. In ogni caso, ci si aspettava che fosse lui a muoversi. A trovare una soluzione e ad arginare le falle di sistema. Invece anche lo Stato fallisce. Dichiara default nel febbraio 1345, spiegando ai propri cittadini di non essere più in grado di restituire i propri debiti e «commutava i relativi titoli in buoni non redimibili sui quali s’impegnava a pagare un interesse annuo perpetuo del cinque per cento». Fu un fallimento non solo economico. Ma etico e psicologico.

Crolla la finanza dei “giganti dai piedi d’argilla”, come aveva definito il sistema dei banchi fiorentini Armando Sapori. E crolla l’immagine di una città che rappresentava, agli occhi di tutti, il principale motore finanziario europeo. Ma Firenze riuscì, nonostante tutto, a reagire, a conservare e addirittura a rafforzare il suo ruolo di capitale internazionale del denaro. In primo luogo, come nota acutamente Lorenzo Tanzini, grazie al «dinamismo dell’imprenditoria cittadina rimasto immutato nonostante le difficoltà, tanto da alimentare continuamente la ricostruzione di nuove forze della finanza privata via via che le vecchie cadevano vittime degli eventi». Molti erano i paracadute cui si affidarono. La ricchezza immobiliare, innanzitutto, case, terre, vigneti ecc.

Il settore trainante dell’industria tessile, come abbiamo visto, modificò a fondo il suo assetto, con una sterzata produttiva verso il settore del lusso. La peste nera del 1348, poi, incise col suo effetto paradossale di aumento dei salari a fronte di una diminuzione dell’offerta di manodopera. In una situazione in cui i prezzi non crebbero in egual misura e, per fornire un solo esempio, per almeno vent’anni dal 1350 al 1370 gran parte dei lavoratori dell’edilizia, la totalità di quelli senza famiglia a carico, non solo ebbero modo di sfamarsi senza problemi ma anche di spendere in affitti e abbigliamento; una buona parte di loro potevano guardare senza sognare a moderati desideri di natura voluttuaria. Con, infine, una vera e propria strategia della fiducia messa in campo dal Comune, con una nuova gestione del debito pubblico, che ebbe anche risvolti di tipo psicologico, di recupero di un’immagine ormai sbiadita se non del tutto corrotta; e un’opera di mediazione, almeno fino alla rivolta dei Ciompi del 1378, tra le aspettative dei ceti dei lavoratori, le ambizioni degli artigiani e gli obiettivi dei grandi capitalisti.

Rendere più flessibili gli strumenti di intermediazione finanziaria fu l’ultima carta vincente. Per capacità innovativa e per le prospettive di lungo periodo i cui effetti appartengono al nostro modo di concepire la finanza e il credito. Si modificano le teste degli imprenditori. Capirono che il mondo finanziario, così come era stato creato, proprio non funzionava. C’era bisogno di aria nuova. L’idea più bella venne a un mercante di Prato. Un figlio di questi tempi disgraziati, che aveva perso i genitori per la peste ed era andato a far fortuna ad Avignone. Si chiamava Francesco Datini. Un personaggio a tutto tondo, che nel suo enorme epistolario spiegava cosa significhi “ragionare da mercanti” , vale a dire «la ragione applicata nelle cose della mercatura». Capiva, con un lavoro di sperimentazione che trovava nell’esperienza il suo fulcro, che si poteva immaginare qualcosa di completamente diverso da ciò che era stata la banca fino ad allora, anelastica, ingombrante, poco adattabile.

Un organismo di gestione più piccolo ma più complesso, suddiviso per compartimenti stagni. Un sistema d’aziende, l’antesignano della holding che, al momento della massima espansione, era organizzato nelle compagnie di Avignone, Prato, Firenze, Pisa, Genova e Catalogna (Barcellona, Valenza e Maiorca); e comprendeva anche il settore produttivo (Arti della Lana e della Tinta a Prato) e la compagnia del banco a Firenze, durata solo pochi anni. Modello che sarà ripreso con successo, e con un surplus di complessità, dai banchi fiorentini, come quello dei Medici. Con un personaggio dalle qualità sorprendenti, come Cosimo il Vecchio, il creatore della fortuna della casa Medici e di suo nipote Lorenzo.