Il progetto dell’euro digitale, attualmente in corso da parte della Bce e che dovrebbe essere attuato entro il 2029, divide gli osservatori. Un invito ad andare avanti con decisione è giunto, in un’intervista a La Stampa (6 novembre), dall’ex direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi. «L’intelligenza artificiale – ha spiegato – cambierà anche il lavoro delle banche centrali, ma il vero rischio è restare indietro. L’euro digitale va accelerato: l’innovazione va governata, non temuta».
Diverso è stato il punto di vista espresso da Ignazio Angeloni (ex membro del Consiglio di Vigilanza della Bce) e Daniel Gros (economista) in un articolo comparso su MF dell’8 novembre. Nel corso della storia, l’efficienza degli strumenti monetari si è sempre fondata – ha sottolineato l’articolo – su un equilibrio fra controllo pubblico e contributo privato, «in cui la dimensione pubblica assicura il rispetto dell’interesse generale e quella privata la funzionalità tecnica e l’economicità di gestione». Le criptovalute spostano l’ago della bilancia verso monete esclusivamente private, «creando strumenti o instabili (bitcoin) o rischiosi per i detentori in assenza di adeguata regolamentazione (stablecoin). È tutt’altro che dimostrato che i vantaggi che esse promettono siano reali e ne giustifichino i rischi».
L’euro digitale cui la Bce sta lavorando vorrebbe rispondere alla minaccia che le monete private rappresentano. Il rischio, tuttavia – fa presente l’articolo – è che «l’ago si sposti troppo dall’altra parte, attuando un livello di controllo pubblico non necessario, costoso e foriero di inefficienza. Per questa ragione altre banche centrali hanno rinunciato a realizzare strumenti analoghi. Un insuccesso dell’euro digitale, del tutto possibile in assenza di chiari vantaggi rispetto a strumenti già esistenti, esporrebbe la banca centrale a un costo reputazionale e indebolirebbe la stessa autonomia strategica europea che il progetto intende rafforzare. La Bce negli ultimi giorni ha riaffermato il proprio impegno, fissando la scadenza al 2029. C’è tutto il tempo per ripensarci».
Un articolo di Moneta, il settimanale economico de Il Giornale, ha fatto il punto sul delicato dossier.
L’ammontare del portafoglio di moneta digitale in capo a ciascun correntista e i costi complessivi del progetto sono i nodi che il negoziato sull’euro digitale deve ancora sciogliere.
Sul primo punto – segnala il giornale – nelle ultime settimane sono circolate stime di un tetto massimo di 3.000 euro digitali che si possono tenere nel proprio portafoglio digitale (il cosiddetto wallet, che sarà in un’app proprietaria della Bce).
La cifra però – sottolinea l’articolo – non è ben vista dalle piccole banche regionali tedesche, da sempre contrarie al progetto euro digitale, che temono di trovarsi a corto di depositi. L’asticella dovrà quindi abbassarsi per riuscire a trovare un compromesso: la sensazione è che un punto d’incontro sarà tra 1.000 e 2.000 euro.
Quanto ai costi del progetto, si concorda sul fatto che le operazioni condotte con l’euro digitale debbano costare meno di quelle che transitano attualmente attraverso le carte di credito (Visa e Mastercard).
Su un pagamento di 100 euro si può stimare che un commerciante debba versare commissioni complessive che vanno da 1 a 3 euro.
L’obiettivo è che pagare in euro digitali costi meno, con le commissioni a Visa e Mastercard che sparirebbero e quelle richieste dalle banche più basse di quelle attuali.
Il fatto è – sottolinea ancora l’articolo – che nel mondo bancario le perplessità sono diverse, tanto che sono circolate stime elevate sui costi di adattamento dell’ecosistema bancario: un report di PwC, commissionato dagli stessi istituti di credito, li ha stimati in 30 miliardi, mentre la Banca Centrale Europea ha calcolato gli oneri in circa 6 miliardi.
Inoltre, secondo l’europarlamentare spagnolo Fernando Navarrete, incaricato dal Parlamento di redigere un report per valutare l’euro digitale pubblicato lo scorso 3 novembre, «l’euro digitale non offre alcun valore aggiunto per i consumatori».
Pertanto, andrebbe utilizzato solo offline, al posto di banconote o monete, e non per le transazioni online, le quali rischierebbero di creare «un ecosistema di pagamenti paralleli che impedisce alle soluzioni private di crescere di dimensioni».
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