Cessione e recupero dei crediti: troppi veti

La cessione del credito è uno strumento utile ma sottoutilizzato. Le nuove norme europee la legittimano: ora serve più coraggio nell’applicarla

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Uno strumento giuridico può offrire soluzioni utili e intelligenti in molte situazioni complesse legate al recupero crediti: la cessione del credito, disciplinata dagli articoli 1260 e seguenti del Codice Civile. Finché i crediti bancari erano gestiti direttamente dagli Istituti di credito, la cessione era pratica diffusa. Si pensi al caso frequente di un familiare o un amico che voleva aiutare un debitore: diventare acquirente del credito era la strada più semplice, permettendo alla banca di rientrare velocemente, anche se in maniera parziale, del dovuto mentre il debitore poteva poi concordare un piano di rientro sostenibile, magari risparmiando sugli interessi.

L’avvento dei servicer e i divieti

Con l’ingresso in scena dei servicer la situazione è cambiata. Molti professionisti che contattano i gestori di posizioni a sofferenza si sentono rispondere: “La nostra società non accetta cessioni, o applica un iter deliberativo così lungo da renderle improduttive”. Tutto questo nasce da un equivoco. Prima del recepimento della direttiva comunitaria n. 2021/2167 sugli acquirenti e gestori dei crediti (D.L. 30 luglio 2024 n. 116), l’acquisto professionale e continuativo di crediti deteriorati, in particolare quelli a sofferenza, era considerato attività bancaria e, come tale, soggetto ad autorizzazione della Banca d’Italia (art. 106 TUB) o da effettuarsi tramite veicoli ex art. 130 TUB. Chi acquistava senza autorizzazione rischiava d’incorrere nel reato di esercizio abusivo dell’attività bancaria, e chi cedeva poteva esserne corresponsabile. La normativa in tema di crediti cartolarizzati prevede che la cessione di crediti da SPV a terzi può avvenire purché sia effettuata in conformità del Prospetto Informativo che deve contenere le condizioni in presenza delle quali la medesima è consentita a vantaggio degli interessi dei portatori dei titoli (vedi L.130 art. 2, comma 3, lett. D). La Banca d’Italia, peraltro, con la circolare n. 188/2015, titolo III, cap. 1, sez. 7, par.5 (Rischi connessi all’attività di servicing) ha demandato ai servicer la verifica sulla cessione dei crediti inclusi nel portafoglio, singolarmente o in blocco. Sempre la L. 130/99 riserva a banche e intermediari finanziari iscritti all’albo ex art. 106 TUB le verifiche di conformità delle operazioni alla legge e ai prospetti informativi così come ribadito dal provvedimento della Banca d’Italia dell’11/11/2021 “Servicers in operazioni di cartolarizzazione” (art. 2 comma 6 bis).

Tutte queste indicazioni hanno indotto molte banche e servicer a ritenere che la cessione del credito dovesse essere demandata solo a soggetti vigilati in grado di assicurare un presidio di conformità normativa e quindi a banche o intermediari finanziari ex art. 106 TUB, portandoli a introdurre un divieto generalizzato di cessione.

Tuttavia, un elemento è stato trascurato. Spesso, infatti, l’acquisto del credito – specie quando è riferito non a portafogli ma ai cosiddetti “single name” – si configura come attività occasionale e non professionale e dunque non rientra nell’attività bancaria abusiva. È chiaro che per valutare con attenzione questo importante aspetto è necessaria un’analisi puntuale a cui spesso gli special servicer, in ossequio a logiche d’“industrializzazione”, hanno inteso sottrarsi.

L’accusa di speculazione

Un altro argomento spesso addotto per opporsi alla cessione è che venga utilizzata a fini speculativi. Questa logica, però, non può trovare applicazione per i single name, dove le motivazioni possono essere diverse, come acquisire il bene o l’azienda posti a garanzia, facilitare un accordo con il debitore o ancora garantire continuità aziendale. Sono operazioni che richiedono professionalità esterne al mondo del recupero crediti. Non a caso, quando si è tentato di gestirle direttamente (vedi REOCO), spesso i risultati sono stati negativi.

Il valore della triangolazione

Le nostre esperienze con vari istituti bancari supportano la convinzione secondo cui i migliori recuperi nascono dalla triangolazione banca – debitore a sofferenza – terzo interessato al bene. Quando tutte le parti accettano di rinunciare a qualcosa, la posizione viene chiusa in maniera equilibrata e sostenibile. Molte volte, la chiave è proprio la cessione del credito.

Le norme come bussola

Per analizzare al meglio l’attuale situazione conviene tornare sulle norme e rileggerle. L’articolo 1260 C.C. recita: “Il creditore può trasferire a titolo oneroso o gratuito il suo credito anche senza il consenso del debitore, purché il credito non abbia carattere strettamente personale o il trasferimento non sia vietato dalla legge”. Con il D.L. 116/2024 che, in ossequio alla normativa europea, ha sostanzialmente liberalizzato l’acquisto dei crediti bancari a sofferenza, il quadro è stato ulteriormente e definitivamente chiarito: si tratta di un’attività pienamente lecita, oggi ancor più che in passato, anche quando svolta a titolo professionale e continuativo.

Uno strumento prezioso per le ristrutturazioni

La cessione del credito trova grande applicazione anche nelle ristrutturazioni. Un soggetto a sofferenza difficilmente può essere rifinanziato e quindi è impensabile che una banca gli offra nuova provvista per chiudere altre esposizioni. Nulla impedisce, invece, che una banca si renda cessionaria degli altri crediti finanziari e li ristrutturi attraverso gli strumenti previsti dal Codice della Crisi. Eppure, anche in questo ambito, le resistenze dei servicer restano forti: lo abbiamo verificato anche in Banca Finint misurandoci in operazioni che avrebbero avuto una definizione più semplice se appunto i servicer avessero accettato di utilizzare questi strumenti.

Conclusione

La cessione del credito non è uno strumento da demonizzare. È legale, flessibile e funzionale, e può rappresentare una via efficace per chiudere posizioni complesse, facilitare accordi e consentire recuperi più efficienti. Rivalutarla significa restituire al mercato un’opportunità che il Codice Civile offre da sempre e che, se applicata con buon senso, può far vincere tutti – pur nella consapevolezza che ciascuna parte dev’essere pronta a cedere qualcosa.

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