Third Party Litigation Funding: strumento utile ma circoscritto ai contenziosi di importo elevato

Il punto di vista dell’avvocato Marco Rossi, co-managing partner dello studio Rossi Rossi & Partners nonché direttore scientifico di BeBankers.it

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L'avvocato Marco Rossi

La recente posizione della Cassazione, che ammette che il funding legale possa essere effettuato da soggetti non iscritti all’albo ex art. 106 TUB (non trattandosi di attività assimilabile alla concessione di finanziamenti), potrebbe portare allo sbarco definitivo in Italia del Third Party Litigation Funding (TPLF).

Di cosa si tratta? Per saperne di più leggi qui cos'è il Third Party Litigation Funding e come può incentivare l'accesso alla giustizia e in che modo lo strumento giuridico per finanziare i processi si sta facendo strada in Italia

A mio avviso, tuttavia, il TPLF non diverrà mai un fenomeno di massa, ma rimarrà sempre tailor made, in quanto riguarda solo le cause o gli arbitrati di una certo valore economico (in quanto le vertenze bagatellari non sono attrattive per i fondi), in cui le probabilità di successo sono elevate (almeno il 70%) e nei confronti di soggetti solvibili. Questo spiega perché, di norma, solo il 4-5% delle cause finanziabili vengono poi finanziate.

Tuttavia, in alcuni casi, il TPLF può costituire una valida opportunità perché consente al creditore (che cede il credito litigioso) di allocare il rischio di causa sul funder (che sosterrà la spese del proprio legale e di quello di controparte in caso di soccombenza) e di allocare le proprie risorse, altrimenti dedicate alla difesa in giudizio, su usi più profittevoli. Per i fondi, questa forma di private equity legale, può  costituire una modalità che trasforma le cause giudiziarie in una asset class alternativa in cui investire. È da vedere se questo orientamento “più liberale” della Cassazione sarà sufficiente per dare impulso anche in Italia a questo business.